Un'avventura di oltre un millennio

Il Castello di Bargone:

Architettura, Storia, Leggenda

dal saggio citato in fondo di Vito Ghizzoni del 1966

 


            Anno 1249 – Federico “per grazia di Dio imperatore dei Romani e Augusto perpetuo, re di Gerusalemme e di Sicilia” concede in feudo a Uberto Pallavicino (fu detto “Il Grande”), fra le altre terre, il castello di Bargone.

            Il diploma, redatto in elegante latino, è, per così dire, l’atto di nascita ufficiale e solenne di Bargone, di quel castello, cioè che era destinato a rappresentare una parte singolare nella storia dei Pallavicino e che ancor oggi, dopo turbinose e drammatiche vicende, dopo numerosi e non sempre felici rifacimenti, sta, maestoso e severo, a rappresentare un passato, ora truce e violentissimo, ora misterioso e altamente suggestivo (nota 3: il castello esisteva certamente molto tempo prima: data la vicinanza a Borgo San Donnino, il suo possesso fu a lungo ambito dai Parmigiani e dai Piacentini).

            Un castello che ben si potrebbe definire tipicamente “medievale” nell’immagine cupa e pur non priva di fascino che ci lascia la lettura di antiche cronache, “medioevale” anche in certi tratti dell’aspetto odierno, con la porta ogivale, e a merlatura ghibellina, del ponte levatoio, la robusta torre smozzicata, il “pozzo del taglio” e cunicoli, scalette tortuose, cisterne, anfratti, in parte ancora inesplorati.

            Castello interessante, per quanto riguarda l’architettura, nel cortile a colonne binate e a bugnati, probabilmente della prima metà del ‘500, nella cosiddetta “sala delle colonne”, di incerta epoca, in un’altra sala affrescata nel secolo scorso con putti, fiori, medaglioni e ornati dal fidentino (borghigiano si sarebbe definito) Girolamo Magnani (1815-1889), pittore di un certo talento e non privo di grazia (scenografo di Verdi che lo qualificò “il più grande scenografo d’Italia” riconoscendo in lui la capacità di armonizzare le scene con il libretto e la musica, decoratore ta molte altre della sala dei banchetti nel palazzo del Quirinale, Cavaliere di prima classe dell’Ordine San Ludovico per nomina di Carlo III di Borbone come premio per il rifacimento del Teatro Regio), e infine in una lunga scala a cordonate, che scende dal cortile a stanze inferiori e ad un vasto sotterraneo dalle volte robuste, armoniose e simmetriche sostenute da possenti piloni.

            E’ da pensare che, in origine, il castello fosse meno vasto dell’attuale e che sia stato ingrandito soprattutto nel ‘500: tracce di antiche merlature, che accertano successivi ampliamenti, affiorano in muri evidentemente più recenti.

            Mancano, però, documenti in proposito; d’altra parte alcune pareti sono state quasi sicuramente innalzate con mattoni e pietrame di altre costruzioni preesistenti - costruzioni in tutto o solo in parte distrutte o, modificate – sicché ci si deve accontentare di congetture e di ammirare la complessità dell’edificio nel quale ogni epoca, dal Medioevo all’800, sembra aver voluto lasciare un’impronta.

            Fortunatamente, l’attuale proprietario, Dr. Silvio Farioli (alla cui famiglia il castello è pervenuto dopo essere passato dai Pallavicino di Cortemaggiore ai Farnese, dai Farnese (che lo avevano conquistato e semidistrutto nel 1580 con Ranuccio) – per vendita effettuata nel 1650 – ai Mari di Genova e poi da questi, successivamente, ai Pallavicino di Genova, ai Pratolongo, ai Parravicini, ai Romano) intende curare, con buon gusto e rispetto di ogni antica tracia, il restauro dei vari ambienti, sicché è auspicabile che possa ottenere qualche soddisfazione nella soluzione di certi enigmi architettonici.

            Non esistono neppure disegni o pitture che ci presentino il castello nella sua struttura originaria (la spedizione di Ranuccio ha probabilmente cancellato quasi tutto e sicuramente la splendida parte rinascimentale del fastoso periodo pallaviciniano, così come aveva distrutto interamente il borgo entro la cerchia) né si possono stabilire raffronti con altri manieri dei Pallavicino, alcuni dei quali fondati verso il 1000.

            L’unico che abbia qualche vaga somiglianza architettonica con quello di Bargone è forse il castello di Pellegrino (uno dei primi castelli dei Pallavicino, già assegnato in feudo da Ottone I ad Adalberto, capostipite della famiglia, nel 981).

            Ambedue le costruzioni hanno infatti la torre volta a Sud e il corpo centrale verso Nord, alto, su un ripido pendio.

            Ma sono elementi assai scarsi e appena leggibili fra le tracce ben più consistenti delle epoche successive.

            La più antica immagine di Bargone è una litografia di Alberto Pasini, il pittore bussetano (1826-1899) celebrato soprattutto come orientalista.

            Fa parte della serie di 30 castelli disegnati dal Pasini in età giovanile; una immagine particolarmente bella per un tono sospeso fra l’idilliaco e il romantico (incisa a Parma presso Zucchi nel1851; porta la scritta “Castello di Bargone nel Parmigiano XXVII”).

            Vengono poi varie fotografie di fine ‘800 e, nelle stanze del castello stesso, un quadro e piccoli affreschi, dipinti da ignoti e ingenui pittorelli.

            Sia dalla litografia del Pasini siadalle successive immagini, si rivela che nel corso di oltre un secolo il castello è rimasto all’esterno sostanzialmente immutato.

            Ma se il sorgere degli elementi architettonici resta un interrogativo avvolto per gran parte nell’ignoto, non altrettanto può dirsi per i documenti che riguardano figure di uomini la cui vita fu, in un modo o nell’altro, legata a Bargone e gli avvenimenti, davvero eccezionali, che il castello stesso ebbero a sfondo: ora tragico e truce come Helsingor, ora circonfuso da luce paradisiaca, ora rifugio olimpico di spiriti raffinati, che sapevano assaporare tutte le squisitezze del Rinascimento.

            Anno 1374 – Francesco Pallavicino di Scipione, spinto e aiutato dal cugino Niccolò di Busseto, che lo fornisce di denaro e di mezzi, accompagnandosi al fratello Giacomo, sale al castello, che è feudo dello zio, Giacomo di Bargone. Lo zio esce festoso incontro ai nipoti amatissimi e imbandisce una lauta cena, a cui partecipa anche il figlio suo Giovanni. A un segnale convenuto, Francesco e Giacomo, aiutati prontamente dai sicari che hanno portato seco, si scagliano sullo zio e sul cugino e li uccidono.

            Diventano così padroni del castello, ma poiché si oppongono a Niccolò, questi, alleatosi con i Parmigiani (1376) muove contro Francesco, che viene ucciso in combattimento.

L’altro cugino, Giacomo, è preso e buttato a languire nel fondo di una torre nel castello stesso di Bargone, ove muore.

            E’ in quel tempo duca di Milano il crudele e beffardo Bernabò Visconti. Egli vuole il castello di Tabiano, pure appartenente a Niccolò, e glielo strappa, con l’inganno e con la forza.

            Niccolò lo ripagacon uguale moneta. Da Bargo

ne si porta a Tabiano, accompagnato da sicari travestiti. Con il tradimento Niccolò e i suoi sgozzano il custode del castello e, a viva forza, si impadroniscono di Tabiano (1378).

            Vive in quegli anni nelle foreste intorno a Bargone un santo eremita. Egli veste una pelle di capra, non ha casa né rifugio, si ciba di frutti selvatici. Si è proposto il silenzio e vive nel silenzio più assoluto. Trascorse così nella penitenza più cruda e fra le privazioni più inumane i suoi giorni.

            Ecco: una lieta brigata esce dal castello per una partita di caccia col falco. La marchesa, moglie di Niccolò, e il suo seguito sono nel folto di una foresta quando un famiglio scopre un misero vecchio già prossimo alla morte.

            La marchesa vuole aiutare lo sconosciuto, si pongono mille domande al morente che non risponde, o meglio risponde a cenni: non vuole nulla, attende solo la morte.

            Incredulità, stupore, senso di venerazione, quando si scopre che quel vecchio è il venerato eremita, affettuose e pressanti offerte.

            Accadrà così che nella notte seguente l’eremita si trascinerà a stento fino alla chiesa del castello e, sempre tacendo, rifiuterà qualsiasi aiuto: non vorrà neppure un morbido giaciglio, ricuserà cibi e bevande. Finché non giungerà da Cremona un frate confessore, espressamente chiamato dalla marchesa: il dotto e pio carmelitano Domenico de’ Dominicis.

            E così, nella chiesa del castello, si svolgerà un colloquio patetico e incredibile tra il saggio confessore e l’eremita – già il popolo che fuori attende lo venera come un Santo e come tale lo invoca – che per 27 anni non ha parlato con alcuno,non ha mai proferito neppure una parola …

            L’eremita è Orlando, della nobile famiglia Medici di Milano; accetta riluttante qualche piccolo aiuto (“liquori e distillati di molto e soave nutrimento” ) e, alcuni giorni dopo, muore (13 settembre 1386).

            Avvengono miracoli: le campane del castello suonano da sole, non toccate da alcuno.

            La salma venerata è trasportata, per volere di Niccolò, a Busseto, capitale del marchesato, con un solenne corteo di chierici e di popolani.

            1392 – La marchesa Antonia, mentre da una finestra della rocca di Busseto osserva un temporale, è uccisa da un fulmine.

            1402 – Niccolò e la seconda moglie, Maria, muoiono nel castello di Tabiano avvelenati dai servi.

            Un susseguirsi, come ognuno vede, di avvenimenti cupamente tragici: sembrano usciti non da pagine di storia, ma dalla fantasia di un drammaturgo, che voglia rappresentare la sorte paurosa di una famiglia perseguitata da odi furibondi. Eppure, in tanta desolazione, rifulge la figura dell’Eremita Santo, con quel silenzio così solenne, così misterioso, così abissale, con quelle poche, misurate parole che commuovono ed esaltano i nobili Signori, carichi di colpe e di rimorsi, e i popolani (famigli, servi della gleba) carichi di miserie e di affanni.

            Poche, misurate parole, che quasi sembrano travalicare le porte stesse della morte e squarciare per tutti lembi del Paradiso.

            Contrasti violentissimi, come dicevo prima, contrasti nei quali sembra agitarsi qualcosa di demoniaco e qualcosa di angelico e dai quali forse è derivata la leggenda del castello di Pietranera nel vicino monte Canate (la storia nonne parla, ma appartenne sicuramente ai Pallavicino, e forse allo stesso Niccolò, e fu distrutto da Bernabò Visconti). La leggenda accenna a una catena di atroci vendette: non manca neppure, in essa,il fulmine vendicatore. Forse è “contaminatio” di realtà e di fantasia: Pietranera potrebbe rappresentare insieme fatti avvenuti in Bargone e in Busseto.

            Altre  leggende accennano a crudeltà perpretate in Bargone: anche queste si riferiscono ai tempi di Niccolò.

            Passano gli anni: Umanesimo e Rinascimento celebrano i loro fasti in tutte le corti italiane e nel 1480 Gian Lodovico Pallavicino divide il feudo di Busseto, che già possedeva insieme con il fratello Giovanni Genesio.

            Gian Lodovico ottiene così Bargone e fonda Cortemaggiore, che aveva chiamata anche con il poetico nome di Castel Lauro e diventerà la fulgida Atene dei Pallavicino. Architetti e urbanisti, pittori e scultori, faranno di Castel Lauro una piccola città dotata di una pianta razionale e di una euritmia architettonica perfetta, ricca di superbe chiese e di sontuosi edifici.

            Un umanista, Panfilo Sasso, canta in lode di Orlando, figlio di Gian Lodovico:

Sunt qui mirantur te moenia condere,Caesar,

Quorum marmoreus sydera pulset apex:

Insuper aethereum tibi construxisse Colossum

Praxitelis doctas Mentoris atque manus:

Quod Logicae Iaqueos, et caeca sophismata solvis;

Quod rerum causas, et sua fata vides.

Carmina quod Vates dulci meditaris avena,

Eloquii nectar quod Ciceronis habet.

Haec ego non miror, nam tu de Pallade natus

Palladis ingenium Pallavicinus habes.

            Si crea in Castel Lauro anche una stamperia, che pubblica per prima in Italia le opere di Niccolò Cusano. Brillerà in questo ramo della famiglia Pallavicino una donna coltissima, Isabella, che andrà a gara con le cugine di Zibello nel proteggere letterati ed artisti. E se queste ricercheranno l’amicizia dell’Ariosto, Isabella potrà vantarsi di proteggere il Tasso.

            In questo clima di raffinato e placido intellettualismo, capita a Cortemaggiore diretto a Bargone – negli anni stessi in cui Gasparo Pallavicino rappresenta alla corte di Urbino quel ruolo che lo fa entrare come personaggio di primo piano nel “Cortegiano” di Baldassarre Castiglione – Matteo Bandello.

            Il celebre novelliere dedica così a Gian Lodovico II Pallavicino (morto nel 1527), che lo ha ospitato cortesemente, la novella “Due giovani vestiti di bianco sono con una burla da un altro giovane beffati”.

            Novella lepida e leggera, trama sottilissima di immagini argute e di strane situazioni, che sembra adombrare, ma velatamente, ma signorilmente, l’eleganza che i Pallavicino di Castel Lauro amavano negli abiti, oltre che nel costume di vita.

(Si legge nel Corio, Storia di Milano, Vol. III, pag. 447, che nel 1485 Orlando II, inviato da Lodovico il Moro a Napoli per le nozze del nipote, vestiva con suprema eleganza ed aveva “una manica carica di perle grosse da conto, zafiri et balassi de pretio de venticinquemila ducati” mentre i paggi erano “vestiti di seta ode scarlata, con le insegne de li patroni ricamate su la manica sinistra de perle et de argento”)

            La burla narrata è ricca di “festività” e di “urbanità” – per usare il pensiero e le parole stesse del Castiglione. E forse in quella lunga scala che sale da una buia cantina “cava ch’era assai grande e spaziosa” il Bandello si è ricordato proprio della scala e delle cantine che ancor oggi si vedono nel castello.

            Un’altra novella è dal Bandello dedicata ad un altro personaggio .della famiglia Pallavicino, Ginevra Bentivoglio, sposa di Manfredo (morto nel 1521), il fratello di Gian Lodovico, quella Ginevra che lo ospita a Bargone.

(il maniero di Bargone lo si deve immaginare ancora con tutto il suo borgo entro la cinta muraria per non incorrere in un errore di inquadramento della vita del castello, errore facilmente riproposto in molte rappresentazioni cinematografiche e televisive)

            In alcune pagine di queste, e di altre novelle ancora, più volte ricorre il nome dei Pallavicino, o sono qua e là, ricordati i loro feudi, come Busseto e Zibello.

            Ma il capolavoro “pallavicinio” resta sempre, senza dubbio, la novella sopra citata, che si discosta dalle altre per una sua peculiare finezza.

            Senza addentrarmi in una sua analisi estetica, che esulerebbe dai fini di questo saggio, voglio tuttavia ricordare l’importanza storica che certe pagine del Bandello acquistano, in mancanza di altri documenti.

            Si conoscono così buffoni, cortigiani, usanze, balli e persino certi cibi delle corti pallavicinie. Si viene a sapere che Bargone era “ameno e fruttifero castello” e, nella prefazione della novella dove si narrano i casi tragici di Alboino e Rosmunda, che Gian Lodovico Pallavicino possedeva una “bellissima e veneranda scrittura in autentica forma compilata” “ove chiaramente si comprende la sua nobilissima schiatta dei marchesi Pallavicino esser dai longobardi discesa”.

            Quest’ultima asseerzione sembra collimare sia con quantosi afferma in alcuni documenti, sia con le convinzioni di alcuni storici di Busseto. (sia con l’infeudazione di Berthold e la compresenza della sua discendenza al castello di Bargone per oltre due secoli) Resta così aperto il problema della origine di Casa Pallavicino (che celebrò nel 1960 il suo Millenario, basandosi sugli studi del Muratori e su altre testimonianze). Mentre potrebbe essere confermata l’opinione che fa di Cortemaggiore una “Corte”, anzi la “Curtis Maior” dei Longobardi, decaduta successivamente fino a diventare semplice villaggio di capanne e quindi fondata di nuovo, come ho scritto più sopra, da Gian Lodovico Pallavicino.

            Per tornare alla raffinata castellana di Bargone, Ginevra Bentivoglio-Pallavicino, cito iversi del Bandello stesso in sua lode, contenuti nel poema “Le Parche” (c. IV):

Vedrà gli altieri modi e i bei costumi

de le saggie matrone e singulari,

che sono in terra due cielesti numi,

e van d’ogni bontade unite e pari.

Queste ‘l ciel vuol ch’ammire e’n lor s’allumi,

e metta in opra l’opre ed atti rari

di Genebra e Costanza, donne tali

che saran chiare sempre ed immortali.

(nelle lodi del Bandello è accompagnata a Ginevra la sorella Costanza Strozzi)

            Una iperbole di tipo prettamente cinquecentesco e manieristico.

            La fluida e pomposa “cicalata” del Bandello, fra sorrisi compiaciuti di belle e colte dame – mentre si dissolvono fantasmi e pianti – è come l’ultimo atto rappresentato in quel singolare teatro che fu, nella storia e nella fantasia degli uomini, il castello di Bargone.

 

 

Questo è il saggio pubblicato da Vito Ghizzoni nel 1967 nel Bollettino Storico Piacentino. Ho preferito questo inquadramento prima di altri per i riferimenti specifici al castello più che ad ogni fatto di cronaca.


Evitate di leggere acriticamente quanto scritto abusivamente ed in contrasto con la (ed alla) proprietà da squalificati wikipediani che riferiscono circostanze volte alla disinformazione e a creare una situazione di ingiustificato allarmismo intorno al castello.  Il castello è mantenuto dalla proprietà ed è in fase di restauro e progettazione di un futuro tranquillo. E' destinato ad essere visitabile ed utilizzabile in collaborazione anche con istituzioni pubbliche.